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La ragazza del treno - Recensione

03/11/2016 | Recensioni |
La ragazza del treno - Recensione

Una donna devastata dal dolore di un abbandono e le sue ossessioni: realtà, apparenza, bugie, verità, tutto si intreccia e si confonde in uno dei romanzi-thriller di maggior successo degli ultimi anni ora divenuto film, La ragazza del treno.
La protagonista, Rachel (Emily Blunt), è una giovane donna distrutta dal recente divorzio e incapace di accettare la fine del suo matrimonio e il tradimento dell’ex marito, Tom (Justin Theroux). L’uomo ha sposato la sua ex amante Anna (Rebecca Ferguson), da cui ha avuto anche una figlia. Ogni giorno, nonostante abbia perso il lavoro a causa della sua dipendenza dall’alcool, Rachel prende sempre lo stesso treno dei pendolari da e per Manhattan guardando fuori dal finestrino. Ogni mattina e ogni sera rivede la casa dove abitava con suo marito e il suo sguardo si sofferma su un’altra casa in quella stessa strada. Rachel si ferma ad osservare una coppia in apparenza perfetta che abita a poche porte di distanza da quella dove viveva un tempo, Megan (Haley Bennett) e Scott (Luke Evans). I due sembrano felici e innamorati mentre fanno colazione la mattina o mentre sostano nel portico la sera. Megan è l’emblema di tutto quello che Rachel sognava di essere durante il suo matrimonio.
Ma un giorno, mentre è sul treno, Rachel assiste a una scena scioccante. Subito dopo, quando Megan scompare e si crede che sia morta, Rachel riferisce alla polizia quello che crede di aver visto. Ma Rachel dice la verità o lei stessa è coinvolta nel crimine?

Il voyeur è una figura da sempre strettamente legata al cinema. La stessa settima arte fonda la sua ragion d’essere proprio su atto di voyeurismo: lo spettatore cinematografico non è essenzialmente e prima di tutto un voyeur? 
Se poi prendiamo alcune pietre miliari del thriller, dall’hitchockiano La finestra sul cortile all’indimenticabile De Palma di Omicidio a luci rosse, possiamo comprendere quanto fosse ghiotta la tentazione di trasferire sul grande schermo un romanzo di grande successo come “La ragazza del treno”, thriller ad alto tasso di voyeurismo. In questo caso, il produttore Marc Platt e la major Dreamworks avevano acquisito i diritti del romanzo di Paula Hawkins già nel 2014, ancora prima che fosse pubblicato (nel gennaio del 2015). Poi è arrivato il sorprendente successo: dalla sua uscita, nel giro di poche settimane il libro è diventato un best seller con oltre 15 milioni di copie vendute (entrando fin dalla prima settimana nella lista dei titoli più venduti del “New York Times”).
Ma come spesso accade, non sempre al successo editoriale corrisponde un’altrettanta riuscita sul grande schermo. Non basta infatti la presenza di tutti gli elementi tipici del thriller: una voyeur che tutti i giorni sale su un treno e osserva le vite degli altri, qualcosa di inquietante che gli occhi scorgono, e non basta neanche l’idea di base di un testimone che diventa un sospetto, un personaggio che supera quella sottile e pericolosa linea che divide l’interesse dall’ossessione.
Non si è rivelato utile neppure scomodare una penna come quella di Erin Cressida Wilson esperta in adattamenti di storie incentrate su personaggi femminili (ha firmato le sceneggiature di film come Chloe - Tra seduzione inganno e Secretary) a fare de La ragazza del treno un thriller perfetto. La regia di Tate Taylor (che ha diretto la storia tutta al femminile di The Help e il debole biopic su James Brown Get on Up) ha innanzitutto optato per diversi cambiamenti rispetto al romanzo: in primis lo spostamento della storia da Londra a New York (in particolare sulla linea ferroviaria della Metro-North che collega Westchester County alla Grande Mela).
In secondo luogo lo spostamento di prospettiva: il libro racconta una storia dal punto di vista di tre donne (alcuni capitoli sono raccontati da Megan e Anna), mentre nel film lo sguardo è unicamente quello di Rachel, gli occhi di una donna emarginata, frustrata, arrabbiata (“ho dovuto ubriacare la macchina da presa, scrivere come se la macchina da presa fosse alcolizzata” ha dichiarato la sceneggiatrice) immersa in un’atmosfera ossessiva e disturbante che solo a tratti risulta convincente.
Quello che manca è una credibilità di fondo negli atteggiamenti della protagonista e una convincente indagine psicologica della mente di un’alcolista, peraltro non aiutata da confusi (per non dire artificiosi) continui balzi avanti e indietro nel tempo.
Meglio di Taylor aveva fatto Fincher con L’amore bugiardo - Gone Girl, raccontando anche in quel caso la misteriosa scomparsa di una donna ma rendendo tangibili sullo schermo le derive violente che si creano all’interno di alcuni rapporti familiari.
La parte meno riuscita del film è il finale, con un epilogo degno di un tragedia a fosche tinte mal strutturata che dovrebbe istituire un parallelismo tra le tre figure femminili di Megan, Rachel e Anna, ognuna rispettivamente simbolo di una pulsione (corpo, mente, istinto materno) e ognuna prigioniera a suo modo di un uomo-carnefice.
Dal pasticciato thriller claustrofobico e paranoide, venato di scene sexy e di colpi di scena maldestramente orchestrati, si salva solo la grande prova di una sempre più brava Emily Blunt, intensa nel rendere un personaggio avvolto in una specie di nebbia, una giovane donna schiava della dipendenza da alcool, tormentata dai sensi di colpa, dalla solitudine, dalla disperazione, dal desiderio di amore e di stabilire dei rapporti.
Perché quello che di potenzialmente affascinante c’è nel romanzo della Hawkins e che si smarrisce nella trasposizione cinematografica è proprio quel sottile contrasto tra ciò che crediamo di vedere e quello che non vediamo, quello che pensiamo di ricordare e non ricordiamo, e quella sottile linea che separa il ricordo da un’ossessione.

Elena Bartoni
 

 


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